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Linguaggio e proposizione nella filosofia di M. Dummett

Un primo aspetto del linguaggio è la familiarità che abbiamo con esso.

Quando, da bambini, impariamo ad usare il linguaggio, impariamo a fare una quantità di cose diverse che lo riguardano: a riconoscere le situazioni in cui siamo autorizzati a formulare questa o quell’asserzione; a giudicare la correttezza o la verosimiglianza di quelle altrui; ad associare termini ed espressioni, collegando informazioni e rendendo, così, via via sempre più articolata la nostra immagine del mondo. Una parte di questo apprendimento è frutto di istruzioni esplicite – si pensi, ad esempio, al modo in cui si insegna al bambino ad usare i termini di colore, a contare o a dire l’ora – ma una gran parte è il risultato di una pratica nella quale ci caliamo quasi automaticamente e attraverso la quale acquisiamo quella speciale confidenza che un parlante ha con la sua lingua. Confidiamo di poter veicolare i significati delle singole parole che impieghiamo ad altri utenti della lingua. Confidiamo di sapere come trattare gli enunciati che pensiamo di capire; come giudicarne, in circostanze favorevoli, la verità o falsità, e quali modifiche comporterebbe, nella nostra immagine del mondo, l’accettarli come veri o il respingerli come falsi.

Tutto questo è esperienza comune e ciascuno di noi potrebbe portare innumerevoli esempi ad illustrazione di questo aspetto del linguaggio. Ciò che rende filosoficamente interessante il fenomeno della familiarità è sapere in che misura questo contribuisca a chiarire il problema del "conoscere il significato di un termine". Ora, è evidente che se intendiamo questo "conoscere il significato di un termine" nel senso di "avere la padronanza nell’uso" di quel termine, allora il fenomeno in questione può svolgere un ruolo rilevante, anzi rivelatore, in quanto ci consente di mettere in luce come la conoscenza della lingua non sia una conoscenza teorica esplicita. Una conoscenza teorica esplicita consiste nella capacità di formulare le proposizioni che contano, di presentarle collegandole tra loro in maniera sistematica, e rispondere alle domande che si possono porre in proposito. Questa conoscenza presuppone la padronanza della lingua nel cui contesto vengono formulate e articolate le proposizioni. E dunque la conoscenza della lingua non è una conoscenza di questo genere: non è la capacità di fornire definizioni sullo stile del dizionario che misura la nostra conoscenza della lingua. D’altra parte, se pure abbassassimo le pretese dalla definizione sullo stile del dizionario al semplice fornire un "resoconto verbale" di ciò che, facendo uso di una certa parola, si intende – che è quanto ciascuno di noi confida di poter fare e si aspetta che gli altri parlanti sappiano fare - il risultato non cambierebbe, perché comunque anche in questo caso la padronanza della lingua sarebbe presupposta. Conoscere il significato di una parola è, dice Dummett, come conoscere l’identità di una persona che ci è ben nota. Una parola, come una persona, ci colpisce come familiare o non familiare: l’impressione di familiarità genera la fiducia di potere, all’occorrenza, darne una spiegazione e questa fiducia è simile a quella di poter dire, se richiesti, chi è una certa persona. Ma è la fiducia di poter dare una spiegazione, non la spiegazione effettivamente data, ciò che rivela in che cosa la nostra conoscenza della lingua effettivamente consiste.

Come mostra la citazione, Dummett condivide con i filosofi del linguaggio ordinario una impostazione che, per usare le parole di G. Ryle, possiamo chiamare anti-intellettualistica. In generale, egli condivide con le correnti della filosofia analitica l’idea che vi sia una connessione tra conoscenza e significato e tra significato e pratica linguistica – non però fino al punto di immaginare quest’ultima connessione (significato - pratica linguistica) nelle forme di un’equazione. Chi ritiene che significato e pratica linguistica coincidano, ritiene, evidentemente, che la comprensione di una parola sia una questione di abilità pratica, e la padronanza del linguaggio un vasto complesso di abilità pratiche. Dal punto di vista di Dummett, però, questo vorrebbe dire equivocare sulla "grammatica" dell’espressione abilità pratica e non vedere, quindi, la specificità del linguaggio. L’abilità di fare in pratica qualcosa, infatti, presuppone che si sappia già in che consiste fare questo qualcosa, ancora prima di imparare il modo in cui possiamo provare a farlo. Ha senso immaginare che qualcuno che non ha mai imparato e perciò ha la consapevolezza di non saper nuotare, voglia nondimeno provare ugualmente – ha senso, perché sapere in che consiste nuotare e acquisire l’abilità corrispondente sono due momenti separati. Ma se qualcuno mi chiede: "Capisci la parola ‘anafora’ ?", io non posso rispondere: "Non ho idea: mettimi alla prova". Questo non avrebbe senso. L’abilità ad usare il linguaggio è qualcosa di cui ci si impadronisce nel corso di una pratica che ha caratteristiche sui generis: non è possibile sapere in che consiste prendervi parte attiva finché non si è acquisita la capacità di farlo. Sapere in che consiste e acquisire la capacità di farlo, non sono due momenti separati. Questo spiega perché i filosofi, a giudizio di Dummett, si siano spesso ingannati su come funziona il linguaggio e abbiano finito per sacrificare questa dimensione del "sapere in che cosa consiste", ossia questa dimensione della comprensione linguistica, sull’altare delle abilità pratiche. D’altra parte, l’esistenza di una dimensione di questo tipo può essere stabilita non solo in negativo, ragionando sui limiti del concetto di abilità pratiche, ma anche direttamente, in positivo. Centrale, in questa seconda prospettiva, diviene allora quello che possiamo chiamare l’argomento della simulazione.

Per esempio, uno studente potrebbe imparare memoria gli enunciati contenuti nel suo manuale e relativi ad una certa tematica, e forse anche ad ingannare i suoi esaminatori, senza aver capito nulla di quella tematica. Sapere che un enunciato è vero è diverso dall’afferrare il contenuto dell’enunciato. Se io so che è vero l’enunciato: "Il neutrino è una particella elementare", non sapendo niente altro né di neutrini né di particelle elementari, evidentemente io non so davvero che il neutrino è una particella elementare. E’, perciò, lo stesso uso dell’enunciato – il fatto, cioè, che questo uso può essere appropriato o non appropriato, corretto o non corretto – che ci obbliga ad ammettere, sostiene Dummett, la presenza, nel linguaggio, di qualcosa che va oltre gli enunciati.

La questione diviene allora quella di identificare questo "qualcosa che va oltre". Certo, sarebbe tutto più facile se si potesse scaricare il problema del conoscere il significato di una parola o di un enunciato sul problema del rapporto che parola e enunciato intrattengono con i fatti empirici; se il conoscere il significato di una parola o di un enunciato si risolvesse nel sapere a chi o a che cosa quella parola o quell’enunciato si riferisce. Se fosse così, per sapere che è vero oppure no che, mettiamo, Alessandro Manzoni ha scritto I promessi sposi, dovremmo sapere di una certa persona che il nome "Alessandro Manzoni" vi si riferisce e conoscere il riferimento del predicato "qualcuno ha scritto I promessi sposi" – ossia: sapere di ciascun essere umano, vivente e non vivente, se il predicato in questione è vero di questo essere umano oppure no . Naturalmente, se sapessimo tutte queste cose, che Manzoni ha scritto I promessi sposi ne deriverebbe quasi automaticamente. E’ evidente che non è così che funziona la nostra comprensione del linguaggio e che non è necessario sapere tutte queste cose per afferrare il contenuto di un enunciato come "Alessandro Manzoni ha scritto I promessi sposi". Dunque, la conoscenza del riferimento di un’espressione, nell’accezione appena descritta, non può mai fornire una caratterizzazione completa della conoscenza che il parlante possiede quando usa correttamente un certo enunciato.

Questa è la conclusione cui giunse Gottlob Frege, del cui pensiero Dummett è uno studioso e un interprete, e la ragione che lo spinse ad introdurre, in uno scritto del 1892, la distinzione tra senso (Sinn) e riferimento (Bedeutung).

Frege sostenne questa distinzione facendo uso di due argomenti. Il primo di questi argomenti è il ben noto "argomento dell’identità": se sapete del pianeta Venere che l’espressione "la Stella del mattino" si riferisce a questo pianeta e sapete anche che l’espressione "la Stella della sera" parimenti si riferisce a questo pianeta, allora dovete sapere del pianeta Venere che sia "la Stella del mattino" sia "la Stella della sera" si riferiscono a questo stesso pianeta . L’asserto di identità: "la Stella del mattino è la Stella della sera" non aggiungerebbe, quindi, alcuna informazione nuova a quanto già sappiamo. Il che contrasta con il fatto che l’asserto che abbiamo appena ricordato esprime una conquista dell’osservazione scientifica e una scoperta astronomica. Dunque: il significato non si risolve nel riferimento.

Il secondo, meno noto, è invece quello che Dummett chiama "l’argomento cognitivo". Ricapitoliamo, innanzitutto, brevemente quello che abbiamo detto fin qui, e cioè che: a) sapere che un dato enunciato è vero è una cosa diversa dal sapere che ciò di cui si parla è vero; b) questo "sapere che" va ulteriormente distinto dal "sapere chi" o "sapere che cosa" - espressione, quest’ultima, con la quale Dummett non intende quella conoscenza che consiste nel sapere a quale tipo un certo oggetto appartenga o nel coglierne l’ essenza universale, bensì, al contrario, quella conoscenza che consiste nel sapere a quale singolo oggetto un certo nome si riferisce e che perciò identifica l’oggetto attraverso la mediazione della parola o del discorso, e non perché il parlante ne abbia una qualche conoscenza diretta o, comunque, indipendentemente dal fatto che ne abbia una qualche conoscenza diretta.

L’argomento cognitivo si compone di due tesi. La prima tesi sostiene che tutta la conoscenza teorica – conoscenza di come stanno le cose, anziché conoscenza di come fare qualcosa – è, in ultima istanza, conoscenza proposizionale. In altri termini, questo vuol dire che per ogni "sapere che cosa" vi è un "sapere che", il quale implica quel "sapere che cosa" ed è ciò su cui quel "sapere che cosa" si basa. Sappiamo a quale persona si riferisce il nome "Socrate" perché conosciamo la verità di proposizioni come, ad esempio, "Il filosofo ateniese processato con l’accusa di empietà nel 399 a.C " ecc. – proposizioni che ci guidano, per così dire, nel processo di riconoscimento e di identificazione dell’oggetto. Se così non fosse, infatti, se conoscere il riferimento di un nome non consistesse nel conoscere una qualche proposizione completa, ricadremmo nella situazione dell’argomento dell’identità e ci troveremmo di nuovo faccia a faccia con il problemi e i paradossi in cui, come abbiamo visto, finisce per impigliarsi l’idea che il significato consista in una semplice conoscenza spoglia, come Dummett la chiama, del riferimento.

La seconda tesi sostiene che ogni conoscenza dell’oggetto o della persona cui un dato nome si riferisce rinvia non ad una sola proposizione, ma ad una pluralità di proposizioni non equivalenti, nel senso, come spiega Frege, che chi conosce la verità di una di queste proposizioni non è detto che conosca anche la verità dell'altra: chi sa che Socrate è il maestro di Platone potrebbe non sapere che Socrate è il filosofo ateniese morto nel 399 a.C. La prima tesi esclude la conoscenza spoglia del riferimento; la seconda, l’esistenza di una proposizione unica . La seconda tesi è quella che solleva i maggiori interrogativi: se ciascuno intendesse ciò che dice, in modi così irrimediabilmente differenti, la stessa possibilità della comunicazione ne risulterebbe compromessa. La via d’uscita, dice Dummett, si trova sul piano della concretezza sociale del linguaggio, che è fatto ovviamente di "pluralità" e di continue revisioni, ma anche di istituzioni e di pratiche stabilite. Questa stabilità è il frutto di un processo che, in alcuni scritti, viene chiamato idealizzazione: mediante l’idealizzazione fissiamo il senso di un'espressione, il criterio di identificazione di un oggetto, e così facendo introduciamo nel nostro lessico una gerarchia, il cui primo effetto è quello di rendere periferici e subordinati gli usi precedentemente correnti di quella stessa espressione . Si tratta innanzitutto di un impegno diffuso, che non riguarda soltanto i livelli alti del sapere e che ci coinvolge quotidianamente – in tutte quelle situazioni in cui, ad esempio, ci troviamo in uno stato di dubbio o ci interroghiamo sul significato di un termine che desideriamo chiarire - dando vita a quella trama relativamente costante di interazioni che fa del linguaggio, conclude Dummett, l’attività razionale per eccellenza.

A. Calonego

 

 

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